Un po’ di storia (non solo nostra)
15 marzo 1974: inizia la raccolta firme per otto referendum, un progetto che costituisce il tentativo di dare punti di riferimento, oltrepassare l’immobilismo dei partiti, scuoterli dentro e fuori. Al progetto aderiscono personaggi del calibro di Loris Fortuna, Sergio Fenoaltea, Giuseppe Branca, Norberto Bobbio, Giorgio Benvenuto, Elena Croce, Bruno De Finetti, Vittorio Foa, Elio Giovannini, decine di altri politici, sindacalisti, intellettuali… Contemporaneamente ha luogo la campagna per il referendum abrogativo della legge sul divorzio, voluto da Vaticano, DC, MSI. I partiti laici e di sinistra, a parte i radicali, fanno di tutto per evitare questo referendum, temono di perderlo. Vaticano, DC, MSI sono sicuri di vincerlo. Come è andata, lo sappiamo. E gli otto referendum radicali che intendono abrogare una quantità di norme clerico-fasciste? I partiti laici e di sinistra non hanno nessuna voglia di impegnarsi su questi fronti. I radicali di fatto sono lasciati soli.
Anche allora la negata informazione è la madre di tutti i problemi. Il 3 maggio un gruppo di radicali (Angiolo Bandinelli, Costanza Lopez, Mauro Nani, Marco Pannella, Marisa Poliani, Vico Ravasio, Gianfranco Spadaccia, Maria Adele Teodori, Valter Vecellio, Luigi Zecca), inizia uno sciopero della fame con quattro obiettivi: a) che la RAI-TV fissi una trasmissione della durata di 15 minuti riservata alla Lega per l’Istituzione del Divorzio e un’altra a Dom Giovanni Franzoni; b) un’udienza da parte del presidente della Repubblica Giovanni Leone; c) la garanzia che il Parlamento fissi i tempi per la discussione del progetto di legge Fortuna sull’aborto; d) garanzie che la proprietà del “Messaggero” rispetti la linea democratica e laica assunta dalla redazione, dopo il contestato e clamoroso cambio di proprietà.
La storia di questo digiuno meriterebbe un “dossier” a parte. Qui basti dire che alla fine, quasi tutti gli obiettivi vengono perseguiti, il gruppo dei digiunatori man mano si assottiglia, fino a che non è il solo Pannella a proseguirlo, per oltre tre mesi. È in quell’estate che si sviluppa nei giornali (che ancora vengono letti) uno straordinario dibattito/confronto che vede protagonista Pier Paolo Pasolini.
Qui si pubblica solo una parte di quel dibattito/confronto: Pasolini, Maurizio Ferrara, Giuseppe Prezzolini, Adolfo Battaglia, Guido Calogero, Leonardo Sciascia, Alberto Moravia, Arrigo Benedetti, Marco Pannella; ma intervennero su vari quotidiani e settimanali anche Giorgio Bocca, Franco Ferrarotti, Roberto Gervaso, Renato Ghiotto, Vittorio Gorresio, Nicola Matteucci, Stefano Rodotà, Giovanni Spadolini, altri. Un giorno, magari, sarà interessante farne un fascicolo a parte.
di Pier Paolo Pasolini
Marco Pannella è a più di settanta giorni di digiuno: è giunto allo stremo; i medici cominciano a essere veramente preoccupati e, più ancora, spaventati. D’altra parte non si vede la minima possibilità oggettiva che qualcosa di nuovo intervenga a consentire a Pannella di interrompere questo suo digiuno che può ormai divenire mortale (va aggiunto poi che un’altra quarantina di suoi compagni si sono man mano associati con lui a digiunare).
Nessuno dei rappresentanti del potere parlamentare (quindi sia del governo che dell’opposizione) sembra, neanche minimamente, disposto a «compromettersi» con Pannella e i suoi compagni. La volgarità del realismo politico sembra non poter trovare alcun punto di connessione col candore di Pannella, e quindi la possibilità di esorcizzare e inglobare il suo scandalo. Il disprezzo teologico lo circonda. Da una parte Berlinguer e il CC del PCI; dall’altra i vecchi potenti democristiani. Quanto al Vaticano è molto tempo ormai che lì i cattolici si sono dimenticati di essere cristiani. Tutto ciò non meraviglia, e vedremo il perché. Ma a cogliere il messaggio di Pannella sono renitenti, scettici e vilmente evasivi anche i «minori» (cioè quelli che hanno «minore potere»): per esempio i cosiddetti «cattolici del no»; oppure i progressisti più liberi (che intervengono in appoggio di Pannella solo in quanto «singoli», non mai come rappresentanti di partiti o gruppi).
Ora, ti meraviglierai profondamente, lettore, nel conoscere le iniziali ragioni per cui Pannella e altre decine di persone hanno dovuto adottare questa estrema arma del digiuno, in tale stato di disinteresse, abbandono, disprezzo. Nessuno infatti «ti ha informato», fin da principio e con un minimo di chiarezza e di tempestività, di tali ragioni: e certamente, vista la situazione che ti ho qui delineato, immaginerai chissà quali scandalose enormità. Invece, eccole:
1) la garanzia che fosse concesso dalla RAI TV un quarto d’ora di trasmissione alla LID e un quarto d’ora a Dom Franzoni;
2) la garanzia che il presidente della Repubblica concedesse un’udienza pubblica ai rappresentanti della LID e del Partito Radicale, che l’avevano inutilmente richiesta e sollecitata da oltre un mese;
3) la garanzia che fosse presa in considerazione dalla commissione sanità della Camera la proposta di legge socialista sulla legalizzazione dell’aborto;
4) la garanzia che la proprietà del «Messaggero» assicurasse non una generica fedeltà ai principi laici del giornale, ma l’informazione laica e in particolare il diritto all’informazione delle minoranze laiche.»
Si tratta, come vedi, di una richiesta di garanzie di normalissima vita democratica. La loro «purezza» di principio non esclude stavolta la loro perfetta attuabilità. Vista, ripeto, la totale mancanza di informazione in cui «tutta» la stampa italiana ti ha lasciato in proposito di Pannella e del suo movimento, non ci sarebbe da meravigliarsi se tu pensassi che questo Pannella sia un mostro. Mettiamo una specie di Fumagalli. Le cui richieste siano «comunque» e «aprioristicamente» da non prendere in considerazione.
Ebbene, tanto per cominciare ti dirò che, secondo il principio democratico cui Pannella non deroga mai, lo stesso Fumagalli, che ho nominato pour cause, avrebbe diritto di essere preso in considerazione nel caso che avanzasse richieste del genere «formale» di quelle avanzate dai radicali. Il rispetto per la persona – per la sua configurazione profonda alla quale un sentimento della libertà la cui formalità sia intesa come sostanziale, permette di articolarsi ed esprimersi a un livello per così dire «sacralizzato» da una ragione laica, rispetto anche alle più degradate idee politiche concrete – è per Pannella il primum di ogni teoria e di ogni prassi politica. In questo consiste il suo essere scandaloso. Uno scandalo inintegrabile, proprio perché il suo principio, sia pure in termini schematici e popolari, è sancito dalla costituzione.
Questo principio politico assolutamente democratico è attualizzato da Pannella attraverso l’ideologia della non-violenza. Ma non è tanto la non-violenza fisica che conta (essa può anche essere messa in discussione): quella che conta è la non-violenza morale: ossia la totale, assoluta, inderogabile mancanza di ogni moralismo. («Sosteniamo che è morale quel che appare a ciascuno.») È tale forma di non-violenza (che ripudia anche se stessa come moralistica) che porta Pannella e i radicali all’altro scandalo: l’assoluto rifiuto di ogni forma di potere e la conseguente condanna («non credo al potere, e ripudio perfino la fantasia se minaccia d’occuparlo»). Frutto dell’assoluta e quasi ascetica purezza di questi principi, che si potrebbero definire «metapolitici», è una straordinaria limpidezza dello sguardo posato sulle cose e sui fatti: esso infatti non incontra né l’oscurità involontaria dei pregiudizi né quella voluta dei compromessi. Tutto è luce e ragione intorno a tale sguardo, che dunque, avendo come oggetto le cose e i fatti storici e concreti –e il conseguente giudizio su di essi –finisce col creare le premesse dell’inaccettabilità scandalosa, da parte della gente-bene, della politica radicale («lungo l’antifascismo della linea Parri-Sofri si snoda da vent’anni la litania della gente-bene della nostra politica»; «…dove sono mai i fascisti se non al potere e al governo? sono i Moro, i Fanfani, i Rumor, i Pastore, i Gronchi, i Segni e –perché no? –i Tanassi, i Cariglia, e magari i Saragat, i La Malfa. Contro la politica di costoro, lo capisco, si può e si deve essere antifascisti…»).
Ecco, a questo punto, suppongo, caro lettore, che ti sia chiaro lo «scandalo» Pannella; ma suppongo anche che tu sia tentato di considerare nel tempo stesso tale scandalo come donchisciottesco e verbale. Che la posizione di questi militanti radicali (la non-violenza, il rifiuto di ogni forma di potere e così via) sia ingiallita come quella del pacifismo, della contestazione, eccetera, e che infine il loro sia mero velleitarismo, che sarebbe addirittura santo e santificabile, se le loro condanne e le loro proposte non fossero così circostanziate e così dirette ad personam.
Invece le cose non stanno affatto così. I loro principi per così dire «metapolitici» hanno condotto i radicali a una prassi politica di un assoluto realismo. E non è per tali principi «scandalosi» che il mondo del potere –governo e opposizione –ignora, reprime, esclude Pannella, fino al punto di fare, eventualmente, del suo amore per la vita un assassinio: ma è appunto per la sua prassi politica realistica. Infatti è il Partito Radicale, la LID (e il loro leader Marco Pannella) che sono i reali vincitori del referendum del 12 maggio. Ed è per l’appunto questo che non viene loro perdonato «da nessuno».
Essi sono stati i soli ad accettare la sfida del referendum e a volerlo, sicuri della schiacciante vittoria: previsione che era il risultato fatalmente concomitante di un «principio» democratico inderogabile (anche a rischio della sconfitta) e di una «realistica analisi» della vera volontà delle nuove masse italiane. Non è dunque, ripeto, un principio democratico astratto (diritto di decisione dal basso e rifiuto di ogni atteggiamento paternalistico), ma un’analisi realistica, che è attualmente l’imperdonabile colpa del PR e della LID.
Anziché essere ricevuti e complimentati dal primo cittadino della Repubblica, in omaggio alla volontà del popolo italiano, volontà da essi prevista, Pannella e i suoi compagni vengono ricusati come intoccabili. Invece che apparire come protagonisti sullo schermo della televisione, non gli si concede nemmeno un miserabile quarto d’ora di «tribuna libera». Certo il Vaticano e Fanfani, i grandi sconfitti del referendum, non potranno mai ammettere che Pannella, semplicemente «esista». Ma neanche Berlinguer e il PCI, gli altri sconfitti del referendum, potranno mai ammettere una simile esistenza. Pannella viene dunque «abrogato» dalla coscienza e dalla vita pubblica italiana.
A questo punto la vicenda si conclude con un interrogativo. La possibilità di digiunare di Pannella ha un limite organico drammatico. E niente lascia presumere ch’egli voglia abbandonare. Cosa stanno facendo gli uomini o i gruppi di potere in grado di decidere della sua sorte? Fino a che punto arriverà il loro cinismo, la loro impotenza o il loro calcolo? Non gioca poi certo a favore della sorte di Pannella il fatto che essi a questo punto abbiano ben poco da perdere, il loro unico problema essendo, ora, salvare il salvabile, e prima di tutto se stessi. La realtà gli si è voltata repentinamente contro; la barca vaticana, dentro la quale contavano di condurre a termine al sicuro l’intera traversata del pelago della loro vita, minaccia seriamente di affondare; le masse italiane sono nauseate di loro, e si son fatte, sia pure ancora esistenzialmente, portatrici di valori con cui essi hanno creduto di scherzare, e che invece si son rivelati i veri valori, tali da vanificare i grandi valori del passato, e da trascinare in una sola rovina fascisti e antifascisti (di oggi). Anche il minimo che poteva essere loro richiesto, cioè una certa capacità di amministrare, si rivela una atroce illusione: illusione di cui gli italiani dovranno ben accorgersi, perché –come i valori del consumo e del benessere –dovranno viverla «nel proprio corpo».
Sono le sinistre che devono intervenire. Ma non si tratta di salvare la vita di Pannella. E tantomeno di salvargliela facendo in modo che le quattro piccole «garanzie» che egli chiedeva e le altre che ora si sono aggiunte, vengano prese in considerazione. Si tratta di prendere in considerazione l’esistenza di Pannella, del PR e della LID. E la circostanza vuole che l’esistenza di Pannella, del PR e della LID coincidano con un pensiero e una volontà di azione di portata storica e decisiva. Che coincidano cioè con la presa di coscienza di una nuova realtà del nostro paese e di una nuova qualità di vita delle masse, che è finora sfuggita sia al potere che all’opposizione.
Pannella, il PR e la LID hanno preso coscienza di questo con totale ottimismo, con vitalità, con ascetica volontà di andare fino in fondo: ottimismo forse relativo o almeno drammatico per quanto riguarda gli uomini, ma incrollabile per quanto riguarda i principi (non visti come astratti né moralistici). Essi propongono otto referendum (riuniti praticamente in uno solo): e lo propongono ormai da anni, in una cosciente sfida a quello proposto dalla destra clericale (e finito con la più grande vittoria democratica della recente storia italiana). Sono questi otto referendum (abrogazione del Concordato fra Stato e Chiesa, degli annullamenti ecclesiastici, dei codici militari, delle norme contro la libertà di stampa e contro la libertà di informazione televisiva, delle norme fasciste e parafasciste del codice, tra cui quelle contro l’aborto, e infine l’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti), sono questi otto referendum che stanno a dimostrare, in quanto ideazione concreta e progetto di lotta politica, la visione realistica di Pannella, del PR e della LID. Sfidare il vecchio mondo politico italiano su questo punto e batterlo è l’unico modo per imprimere una decisiva svolta pratica alla situazione in cui l’Italia è precipitata, oltre a essere oggi l’unico atto rivoluzionario possibile. Ma questo è contro troppi miserabili interessi di uomini e partiti, ed è questo che sta pagando Pannella di persona.
Nella vita pubblica ci sono dei momenti tragici, o peggio ancora, seri, in cui bisogna trovare la forza di giocare. Non resta altra soluzione. Dallo stile epistolare passerei qui dunque, caro lettore, a quello del volantinaggio, allo scopo di suggerirti il modo di non commettere, in questa circostanza, quello che i cattolici chiamano peccato di omissione, o, comunque, allo scopo di spingerti a fare il gioco, vitale, di chi decide di compiere un gesto «responsabile». Tu potresti decisamente intervenire nel rapporto, a quanto pare, insolubile, tra l’intransigenza democratica di Pannella e l’impotenza del Potere, inviando un telegramma o un biglietto di «protesta» ai seguenti indirizzi. 1) Segreterie Nazionali dei Partiti (escluso, s’intende, il MSI e affini), 2) Presidenza della Camera e del Senato.
(“Corriere della Sera”, 16 luglio 1974)
di Maurizio Ferrara
La arrogante “chiamata di correo” che Pier Paolo Pasolini crede di poter elevare contro il partito comunista – e questa volta per il “caso Pannella” – non meriterebbe altre risposte dopo quelle già fornite sull’”Unità”. Ma il “Corriere della Sera” ci invita a replicare, “una tantum”, a questo suo ultimo lancio delle sortite estive di P.P.Pasolini, divenuto ormai il moralista ufficiale “di sinistra” del giornale di via Solferino.
Ringraziamo e accettiamo, se non altro per renderci utili anche ai lettori del “Corriere”, coinvolti da Pasolini nel suo pressante appello contro un potere nel quale egli, a quanto afferma, non è affatto immerso e “omologato”, come capita invece, secondo lui, ai comunisti, agli operai, ai cattolici del “no”, ai laici, agli antifascisti, i “veri fascisti”, di oggi, secondo Pasolini.
Pasolini, a noi sembra, questa volta sfiora il gioco delle tre carte, quando continua a catalogare “Berlinguer e il PCI” tra gli “sconfitti del referendum”.
Sappiamo benissimo che il partito radicale voleva il referendum e il PCI no. Ma questo non fa ancora del partito radicale il “vincitore reale” e del PCI lo “sconfitto”. Strana sconfitta quella di un partito, come il PCI, che porta al “no” il massimo di attività e di voti. Strana “sconfitta” quella di chi, come il PCI, proprio per avere condotto una campagna di propaganda fondata sulla ragione contro l’irrazionale, fuori dai rozzi schemi agitatori anticlericali è riuscito a unire nel “no” forze che Fanfani voleva spaccare con il “sì”. Forse è dovuto ai fulmini anticlericali del partito radicale, il fatto storico che masse cristiane abbiano dato, con il “no”, la dimostrazione che la DC non è la proiezione politica del mondo cattolico? In questa liberazione noi crediamo di entrarci per qualche cosa e non solo per la campagna del 12 maggio, ma per tutta la nostra tradizione politica.
Non è dunque trionfalismo, da parte nostra sottolineare che decisiva è stata la nostra linea (ostilità al referendum compresa) per la vittoria dei “no”. Ma Pasolini tutto questo lo nega, a lui basta sapere che Pannella fu il primo a lanciare “la sfida”. È vero: com’è vero che la sfida a trasformare l’Italia in repubblica, il partito repubblicano la aveva sempre lanciata anche prima del 1946. Ma che cosa vuol credere Pasolini che il referendum istituzionale del 1946 lo vinse più il partito repubblicano dell’epoca di quanto non lo vinse il PCI, con la linea di Togliatti, considerata addirittura “monarchica” dai radicali di quel tempo? Pasolini, poi, chiama in causa il PCI perché non esalta e non fa proprie le richieste del partito radicale per le quali Pannella sta facendo lo sciopero della fame a rischio della sua salute. Comprendiamo l’allarme e la preoccupazione di quanti temono per la vita stessa di Pannella e si battono perché l’irreparabile non accada. Ma può questa solidarietà mutare la natura dei diversi giudizi politici? Per quanto riguarda le quattro richieste immediate di Pannella (15 minuti alla tv per la LID, udienza dal Capo dello Stato, “iter” legislativo sull’aborto, caso “Messaggero”) si rassicuri Pasolini: noi non le consideriamo “scandalose enormità”. Ma, contrariamente a Pasolini e al partito radicale, non le consideriamo neppure il centro della problematica urgente della vicenda nazionale. E non pensiamo neppure che i gesti disperati o clamorosi, servano a qualcosa. Ogni volta che un disoccupato sale sul Colosseo e di lì grida la sua disperazione, noi cerchiamo di farlo scendere, ma non invitiamo i disoccupati a fare altrettanto. Quel molto che abbiamo ottenuto contro la disoccupazione, in questi anni, lo abbiamo ottenuto in altro modo: e i disoccupati lo sanno. Il che non toglie tornando al gesto disperato e clamoroso di Pannella, che saremmo soddisfatti se gli ostacoli che fin qui non hanno premesso la sua udienza dal Capo dello Stato potranno essere rimossi.
Ma, dice Pasolini, la storia oggi avanza con Pannella, la LID, il partito radicale gli unici a vedere giusto. Quindi le sinistre “devono intervenire” facendosi carico e sostenendo la politica degli “otto referendum”. Se non lo fanno è perché hanno “miserabili interessi” da difendere. Ci dispiace per Pasolini, e per gli interessi che difende, che certamente non sono miserabili. Ma almeno per quanto riguarda il PCI, il diritto-dovere di scegliersi gli obiettivi e alleati è irrinunciabile. Cosa pretende Pasolini che il PCI deleghi al partito radicale la facoltà di rappresentarlo e, evidentemente, anche di guidarlo? Noi siamo dispiaciuti che Marco Pannella per condurre la sua battaglia abbia scelto il terreno della rovina del suo fisico e ci auguriamo sviluppi che gli consentano di ristabilirsi. Ma il rispetto che abbiamo per la “non violenza” e i suoi metodi non ci consente di cambiare parere sulla richiesta degli “otto referendum”, che riteniamo sbagliata.
Non delegammo a Danilo Dolci, per il quale avemmo e abbiamo rispetto e amicizia, il rispetto della Sicilia. Non deleghiamo a nessun altro la nostra politica nazionale. È un dovere, questo, che noi riteniamo di avere verso una nostra intera storia intessuta di sacrifici enormi quanto scevra di gesti clamorosi. E, d’altra parte, non è questo che ci chiedono le immense masse che seguono il partito comunista per i motivi opposti a quelli per i quali oggi Pasolini ci attacca: e cioè proprio perché siamo la forza principale di attacco non contro un potere generico ma contro lo strapotere democristiano, contro il quale – e non da oggi – non agitiamo frasi ma impieghiamo lotte di masse fatte da uomini del popolo che sono permeati da quel “realismo politico” che Pasolini, nella sua estetizzante fuga verso l’irrazionale e lo scandalo, considera una “volgarità” rispetto a un pulito “candore”, come quello di Marco Pannella, che noi non deprezziamo ma dal quale, com’è ovvio, non vogliamo, e non possiamo farci condizionare.
P.S.: Molte perle P.P.Pasolini semina nel suo “elogio della pazzia”: nel potere tutti sono eguali, il PCI e la DC; il diritto di accesso alla tv spetterebbe anche a Fumagalli (il quale, per noi, sta bene dove sta, in galera); i veri fascisti oggi sono gli antifascisti da Sofri di “Lotta continua” a Moro e Ferruccio Parri, eccetera. Ma di queste cose non ci occupiamo, certi che anche il lettore del “Corriere della Sera” avrà capito da solo che si tratta di superficiali fumisterie qualunquistiche, spie di una perdita, speriamo temporanea, della ragione politica.
(“Corriere della Sera” 18 luglio 1974)
di Giuseppe Prezzolini
Soltanto un Pasolini può essere sicuro come un Papa che parli “ex cathedra” di ciò che sia “democratico”, e di ciò che una democrazia, regime di libertà, dovrebbe proibire e magari espellere rinnegando se stessa.
Pasolini non ha vissuto mai in un Paese democratico visto che l’Italia è un Paese anarchico, variamente travestito da democratico, conservatore, qualunquista, comunista, e mezzo a destra e mezzo a sinistra, ora carne e ora baccalà. Nei Paesi democratici, come gli Stati Uniti, la società è tirannica, ma lo Stato è democratico e quindi quando una cinquantina di pazzerelli vollero travestirsi da nazisti e fare un giro intorno alla Casa Bianca con tanto di svastica al braccio, il Governo democratico americano lo permise, anzi li fece circondare e difendere da un centinaio di poliziotti perché nessun ebreo memore li seppellisse di insulti, di sputi e di pietre. Pasolini sa tante cose che io non conosco; ma non ha vissuto come me per trentadue anni in un Paese democratico; se no, non si sognerebbe nemmeno di chiamarsi tale, e di dire che non permetterebbe ad Almirante di sostenere le sue idee antidemocratiche, o democratiche in un modo diverso da quello di Pasolini.
Pasolini è come Lutero, che quando, scaturiti dai semi di rivolta che aveva gettato sul terreno della Germania, i contadini vollero realizzare il Regno di Dio, seguendo la Bibbia alla lettera compresa la poligamia, li condannò e invitò i fedeli ad assassinare qualunque “sedizioso” (cioè disobbediente ai prìncipi) con la sicurezza di andare diritto diritto in Paradiso.
Pasolini è sicuro come un Papa che parli “ex cathedra”, e ci minacciava di scomunica democratica se il Presidente della Repubblica non riceveva Pannella. Cosa vuole Marco Pannella dal Presidente? Una cosa che il Presidente non ha facoltà di dare, in regime di democrazia: ottenere cioè modificazioni delle leggi o consuetudini del Governo. Egli fa lo sciopero della fame ed è ridotto alla estremità per assicurarsi che un giornale che non è mai stato fedele ai suoi principi corrisponda ora ai suoi sentimenti politici; e vorrebbe che la Rai desse un quarto d’ora ad un abate, che è in cerca di pubblico, non avendone trovato abbastanza per le sue pretese protestanti.
Il caso che solleva Pasolini non è nuovo. Non ricordo più in quale anno della mia giovinezza, ma fu prima della prima Guerra Mondiale, che il Sindaco della città di Cork in Irlanda si dette al digiuno e morì di fame chiedendo la libertà del proprio Paese.
A quel tempo Mario Missiroli, che non era ancora direttore del “Corriere della Sera”, scrisse una nota che io pubblicai in un libro intitolato dal mio amico “”Opinioni””, uscito nel 1956 in una II edizione presso la Casa editrice Longanesi. Vi si legge a pagina 291: “Fra il sindaco di Cork che ha inaugurato lo sciopero della fame, e Lloyd George, che lo lascia morire di inedia, la scelta non è facile. Sono degni l’uno dell’altro. Io preferisco Lloyd George, poiché rappresenta, a mio avviso, un’idea più altra: quella della autorità dello Stato, che è superiore a quella dell’indipendenza per la quale si lascia morire il sindaco eroe. Comunque, si riesce a immaginare un caso simile in Italia o in Francia? Che emozione! Dopo ventiquattr’ore lo Stato avrebbe capitolato. In Inghilterra, no: il sentimentalismo è riservato ai cani e agli uccelli. Agli impieghi innocui”. L’Inghilterra di Lloyd George era democratica, ed anzi Lloyd George era un ministro della estrema democrazia, ma lasciò che il sindaco di Cork morisse, senza accontentarlo.
Pasolini sarà forse quel grande poeta, artista, propulsore, provocatore di idee che lo dicono gli “ex-giovani”; ma manca di cultura storica, di senso comune e di razionalità elementare.
Se bastasse la convenzione dei digiunatori, e dei bonzi che si bruciarono per risolvere i problemi politici del Vietnam, il mondo sarebbe pieno di esempi di questo genere. Sarebbe prevedibile un’esplosione di digiunatori e di autobruciatori. I martiri non stanno tutti dalla stessa parte. Che direbbe Pasolini se un seguace di Almirante digiunasse come il Pannella, perché i giudici assolvessero il suo eroe? E perché dom Franzoni dovrebbe avere un quarto d’ora di radio, e non dovrebbero averlo anche un buddista, un maomettano, un ateo? I quarti d’ora in un giorno sono novantasei; ma di questi novantasei soltanto sei o sette in un momento buono per avere un pubblico. A chi Pasolini desinerebbe le quattro e a chi le diciannove?
L’ufficio del Presidente della Repubblica non è, secondo la Costituzione “democratica” che l’Italia si è data, fatto per ricevere tutte le persone che hanno un ideale nella testa; come le colonne del giornale in cui Pasolini scrive non possono essere aperte a chiunque abbia un’opinione da sostenere. Io, per esempio, scrivo in questo giornale perché sono stato invitato e scriverei anche nella “Unità” se avesse lo spirito di invitarmi a lasciarmi di re quello che penso. E il Presidente della Repubblica è libero, come persona privata, di ricevere chiunque, non può ricevere tutti coloro che desiderano un cambiamento di politica. Tra le altre cose, dove troverebbe il tempo?
La democrazia è così, e non l’ho inventata io. Fra gli altri luoghi comuni ripetuti con aria di profeta dal Pasolini, c’è quello della “non-violenza”.
Ora, prima di tutto, la parola è equivoca. I gabbiano del Lago di Lugano portano via il cibo dalla bocca delle anatre; ma quando non c’è cibo, stanno con loro senza beccarle. Sono forse pacifisti? Togliere il cibo, interrompere il modo d’arrivare a casa, impedire di lavorare come fanno certi scioperanti non è una violenza ipocrita come quella dei gabbiani? Ma il Pasolini si guarderebbe bene dal protestare contro gli scioperi politici.
Pare che il Pasolini non sappia che l’India che incominciò con la non-violenza del Mahatma Gandhi è finita con la bomba atomica della signora Indira Gandhi. E siccome Pasolini è un umanista e un linguista, gli ricorderò che Esìodo deplorò il tempo proprio perché usava il ferro per le guerre, e lamentava l’età della pace, che chiamava età dell’oro, che era finita. Da Esiodo a Gandhi, nonostante Gesù e Budda, le guerre sono continuate. Ma Pasolini legge mai i giornali? Dovrebbe sapere che non c’è tempo per la retorica. Si tratta di non far fallimento, di aver da mangiare, di poter stare sotto un tetto. C’è la fame alle porte e non si possono saziare i poveri con le prediche di dom Franzoni.
(“Corriere della Sera”, 20 luglio 1974)
di Adolfo Battaglia
Marco Pannella è una persona ricca di doti che vive oggi, chiaramente, un momento di grande difficoltà, forse di pericolo. Mi pare perciò che sarebbe ingiusto rimproverargli le mille cose sbagliate, esasperate, fuori tono, che dice e talvolta fa; e che sia più utile invece fermarsi un momento a tentar di capire il significato del problema che egli pone; oltre tutto è l’unico modo per contribuire a toglierlo dal maledetto impiccio in cui si è messo.
Che cosa rappresenta Pannella? A stringere, un momento che sta dovunque, in ogni tempo, e che in altre società democratiche più solide e più antiche della nostra trova innumerevoli espressioni: il momento dell’iniziativa autonoma, della sollecitazione libertaria, della contestazione dei rapporti “positivi” che si generano necessariamente in ogni aggregato sociale, un fermento utopico, come si dice, una posizione meta-politica, un rifiuto dei canali e dei metodi attraverso cui, necessariamente, si modifica la realtà storica, una posizione “radicale”, appunto.
Questo tipo di atteggiamento – su cui Marco obiettivamente si qualifica, al di là delle molte e diverse posizioni politiche che in trent’anni ha assunto – questo tipo di atteggiamento “utopico” ha sempre avuto una parte nella storia e quindi nella politica. Talvolta i grandi politici sono addirittura “politici dell’irrealtà”, come diceva Omodeo di Mazzini. E comunque è vero che c’è uno spazio in cui l’iniziativa individuale meta-politica può far gran bene a una società. Ma che cosa avviene da noi? Avviene che in una situazione a pezzi come quella italiana, con la corruzione del potere che tutti conosciamo, con istituzioni e forze politiche che nel complesso fanno pena, la posizione radicale finisce con l’apparire una boccata di ossigeno in un garage e trova, di conseguenza, un’udienza più larga di quel che normalmente riscuota un po’ dovunque nel mondo.
La vicenda del divorzio e del referendum, da ultimo, ha dato alla posizione radicale un impatto politico rilevante, facendo apparire realistica, strutturalmente modificativa della condizione politica, quella che è una posizione utopica, cioè strutturalmente ignara del giuoco concreto delle forze e delle realtà storiche. (Ci si è dimenticati, in verità, che l’impatto politico del divorzio e del referendum è stato tale proprio perché sono entrate in campo le forze politiche, che su quei terreni hanno preso posizione, hanno fatto previsioni, si sono scontrate e, infine, hanno vinto, o perso).
È in questo quadro singolarmente slargatosi che Pannella ha cominciato una nuova prova che dimostra la sua capacità di sacrificio e di dedizione, ma di cui riesce difficile comprendere la dimensione e il senso. Certo, l’azione non-violenta, come forma di pressione sulle classi dirigenti di un Paese, è un fatto che appartiene alla tradizione delle società democratiche. Lo è in quanto pone a fuoco un valore universale – l’eguaglianza delle razze, la libertà di un intero popolo – che non si può far rispettare attraverso i canali ordinari dell’azione politica. L’azione non-violenta è una affermazione drammaticamente necessaria, che chiede il consenso della coscienza universale a un valore che è di tutti, in un momento di oppressione assoluta. Ma, ecco, tutto questo non ha niente a che fare con le richieste che motivano il digiuno di Pannella. Il diritto di accesso in televisione, l’inizio della discussione parlamentare del problema dell’aborto, l’incontro con un’alta autorità dello Stato, il rispetto della linea di un quotidiano sono, chiaramente, questioni che appartengono alla difficoltà normale di una politica in crisi, sono frammenti del problema dello sviluppo di una società arretrata. Esigono, dunque, azione politica, spostamento di forze, collocazione nel giuoco degli interessi. Come pensare di poter utilizzare per questo tipo di problemi, gli strumenti omogenei alla posizione utopica, al richiamo di coscienza, alla linea radicale? Per imporre i dispositivi di sicurezza alla Ford, Ralph Nader non ha mai fatto un giorno di digiuno. E l’azione non-violenta rischia, impiegata su terreno improprio, di diventare forma di vera violenza morale; il ricatto di una vita cara a molti per imporre contenuti specifici di lotta politica a forze che ritengono di dover portare avanti altri contenuti, e scelgono schemi politici diversi da quello che Pannella, personalmente, persegue.
Sbagliano nella loro valutazione, quelle forze? È possibile. Ma è certo che il suicidio per fame su grandi tempi della libertà e della coscienza, della vita e della morte, ha un senso (e un impatto); la minaccia di suicidio per fame per ottenere il diritto di accesso alla Tv (problema oltre tutto impostato da tempo, e avviato a soluzione da altre forze politiche) significa soltanto premere per un consenso che non è politico, ma di pietà; e dunque, poi, privo di reale influenza politica.
C’è una conseguenza negativa per la democrazia e la libertà, oltre tutto, in questa impostazione. Ed è che la suggestione emotiva che giustamente si crea intorno a un dramma umano, porti a teorizzare che la strada giusta per uscire da una situazione politica, economica e istituzionale ai limiti dello sfacelo sia ormai solo la strada dell’azione di coscienza, e che i modi per superarla veramente consistano nell’affrontare, come temi politici, i temi dell’utopia libertaria: come se gli strumenti e i contenuti di essa potessero surrogare i canali e i contenuti imposti dalla realtà urgente della storia del Paese. Questa teorizzazione diventa un’autentica fuga, e perciò un incentivo alla confusione e al malessere da cui si vorrebbe uscire; un contributo all’ulteriore sfacimento della vita democratica, eguale e contrario a quella del qualunquismo fascista che teorizza, appunto, i partiti putrefatti e la democrazia incapace.
E tuttavia l’aspetto che a me pare ancora più grave di questa vicenda – da cui Marco Pannella deve uscire, perché è un uomo di certo superiore ai suoi errori di generosità – non è neppure questo. È l’atteggiamento, lo dico con tutta franchezza, che risulta dall’articolo di Pasolini o dall’intervista che ha pubblicato sul “Mondo”. Se gli uomini di cultura rinunziano al ruolo dell’intellettuale, che è quello di produrre contributi critici al chiarimento dei problemi, se enfatizzano l’aspetto emotivo dei fatti da analizzare, se si gettano su un dramma personale che ha vaste implicazioni politiche cogliendone solo l’aspetto umano più appariscente con un cattivo miscuglio di retorica e di approssimazione concettuale, la società perde un tessuto di raccordo e di comunicazione. Una parte importante del suo vigore intellettuale e morale. La cultura torna a diventare “letteratura” l’uomo di cultura, il letterato di corte della tradizione italiana, che invece di ruotare intorno alla corte gira intorno alla moda di cui transitoriamente si nutre. Il maggiore rischio di Marco Pannella è di essere inghiottito, consumato, de la moda dei nuovi letterati o corte, dell’entusiasmo e dai fatui fuochi d’artificio che momentaneamente lo circondano, e che si spegneranno appena una nuova moda sorgerà. Gli uomini politici hanno grandi responsabilità nella degenerazione della vita italiana. Ma qual è il contributo che la cultura italiana d’avanguardia ha dato a migliorare il Paese? La cultura cioè un fatto di chiarezza intellettuale, di precisione di concetti, di solidi studi, di coerenza morale, di rigore critico.
Vediamo molta fantasia brillantezza, effervescenza, imitazione, snobismo, denaro; poco del resto, cioè dell’essenziale. Si capisce che la crisi del Paese è vasta e difficilmente solubile.
(“Corriere della Sera”, 21 luglio 1974)
di Pier Paolo Pasolini
Leggendo la risposta “ufficiale” di Maurizio Ferrara al mio intervento su Pannella, mi sono cascate le braccia. Dunque era vero. Tutta la polemica di Ferrara, a nome del PCI contro la mia persona, era fondata su niente altro che sull’estrapolazione di una frase dal mio testo (“Corriere della Sera”, 10 giugno 1974), frase accepita letteralmente, e infantilmente semplificata. Tale frase è: “La vittoria del “no” è in realtà una sconfitta… Ma, in certo senso, anche di Berlinguer e del partito comunista”.
Ora, anche un bambino avrebbe capito la “relatività” di tale affermazione: e che mentre la parola “sconfitta”, riferita alla DC e al Vaticano, suona nel suo pieno significato letterale e oggettivo, la stessa parola riferita al PCI, ha un significato infinitamente più sottile e composito. Anche un bambino avrebbe capito quanto c’è di paradossale nell’identificazione di due sconfitte in realtà così sostanzialmente differenti. Resta però il fatto che anche quella del PCI è comunque una “sconfitta”, e questo non doveva essere detto. E se qualcuno lo avesse detto, non avrebbe dovuto venire in nessun modo ascoltato. Avrebbe dovuto come dice Pannella essere abrogato.
Chi avesse la necessità primaria di “abrogarmi” – cancellando da ogni possibile realtà, anche figurata, la parola “sconfitta” riferita al PCI (ingrata incombenza affidata appunto a Maurizio Ferrara) – era aprioristicamente negato a comprendere qualsiasi altra cosa io dicessi: perché, come sanno bene gli avvocati, bisogna screditare senza pietà tutta la persona del testimone per screditare la sua testimonianza. Ecco spiegata l’incredibile incapacità di Maurizio Ferrara a capire i miei argomenti; incapacità non dunque dovuta a rozzezza, disinformazione, ristrettezza mentale, tutte ragioni a cui sarebbe spinto a pensare subito un lettore maligno o esasperato.
Al di fuori che sul famoso punto (la “sconfitta”), in cui Ferrara usa degli argomenti perfettamente giusti (la presenza imponente e decisiva del PCI ecc.) ma altrettanto sfasati, appunto perché da me stesso ritenuti talmente giusti da non essere ribaditi senza offesa dell’intelligenza del lettore tutto il resto che ho detto nei miei “pazzeschi” interventi ha subìto nell’interpretazione di Ferrara una deformazione caricaturale, oltre che slealmente riduttiva. Siamo, per meglio dire, al linciaggio. Perché si lincia una persona quando si dice che egli definisce “volgari” otto o nove milioni di comunisti, laddove egli invece definisce “volgare” la politica ufficiale delle oligarchie dirigenti. Si lincia una persona quando gli si attribuisce l’affermazione che DC e PCI sono “uguali” nel potere, riassumendo meschinamente un concetto ben più complicato e drammatico. Si lincia una persona quando gli si attribuisce, l’affermazione che “Fumagalli ha diritto di accesso alla TV, laddove tale affermazione (ma non concernente l’“accesso alla Tv”, bensì, in senso infinitamente più liberale, i “diritti civili”) è contenuta nel discorso da me riportato di un altro (nella fattispecie Pannella, che, tuttavia, ne parlava paradossalmente, in linea di principio). Si lincia una persona quando si prende un suo concetto, lo si riduce come fa comodo, e lo si rende delatoriamente facile bersaglio del disprezzo o dell’ilarità pubblica: cosa che fa Ferrara a proposito delle mie idee, certo non nuove, ma certo drammatiche, su ciò che sono oggi fascismo e antifascismo, confrontati con la massiccia, impenetrabile, immensa ideologia consumistica, che è l’“inconscia ma reale” ideologia delle masse, anche se i valori ne sono vissuti ancora solo esistenzialmente.
Ma qui forse Ferrara non ha capito, proprio in senso mentale, il problema. Come non ha capito il senso dei miei discorsi sull’“acculturazione omologante” (di cui io parlavo riferendomi esclusivamente ai giovani, e alle culture “particolari e reali” del paese). Cose queste, che se non si capiscono, sembrano stupidaggini. Cosi che io devo sentirmi prendere in giro a causa di idee nate esclusivamente nella testa di chi mi prende in giro (da uomo di potere questa è la cosa grave, da persona che rappresenta otto o nove milioni di elettori).
Quello che io invece vorrei sapere da Maurizio Ferrara, senza riserve mentali e senza cattiverie polemiche, è perché i comunisti “ritengono sbagliata” come laconicamente annuncia Ferrara, quasi si trattasse della opinione del papa la richiesta degli otto referendum.
Tutto ciò che ho detto sulla ideologia »inconscia e reale dell’edonismo consumistico coi suoi effetti di livellamento di tutte le masse nel comportamento e nel linguaggio fisico per cui le scelte politiche della coscienza non corrispondono più con le scelte esistenziali , tutto ciò che ho detto sulla violenta, repressiva, terrificante acculturazione dei centri del potere e la conseguente scomparsa delle vecchie culture particolari e reali (coi loro valori) era già stato detto, e per di più (cosa definitivamente rassicurante) anche “denominato”? Si sono fatti, anzi, su questi problemi dei convegni internazionali di sociologi? E quanto mi oppone gentilmente Ferrarotti (“Paese Sera”, 15 luglio 1974) per ridurmi a sua volta al silenzio e all’inesistenza. Ma proprio i nomi, proprio i nomi che tanto, e tanto piacevolmente, sembrano esaustivi a Ferrarotti, proprio i nomi (“melting pot”!), e proprio i luoghi internazionali dove tali nomi vengono fatti, dimostrano che il problema “italiano” non è stato neanche lontanamente affrontato. Ed è quello che io affronto. Perché lo vivo. E non gioco su due tavoli (sulla vita e sulla sociologia) perché altrimenti la mia ignoranza sociologica non avrebbe quel “candore accattivante” di cui parla Ferrarotti stesso.
Ebbene ritengo di poter ragionevolmente sostenere (come esordiscono i sociologi anglosassoni) che il problema italiano non ha problemi equivalenti nel resto del mondo capitalistico. Nessun paese ha posseduto come il nostro una tale quantità di culture “particolari e reali”, una tale quantità di “piccole patrie”, una tale quantità di mondi dialettali: nessun paese, dico, in cui si sia poi avuto un così travolgente “sviluppo”. Negli altri grandi paesi c’erano già state in precedenza imponenti “acculturazioni”: a cui l’ultima e definitiva, quella del consumo, si sovrappone con una certa logica. Anche gli Stati Uniti sono culturalmente enormemente compositi (sottoproletariati venuti a concentrarsi caoticamente da tutto il mondo), ma in senso verticale, e, come, dire, molecolare: non in senso così perfettamente geopolitico come in Italia. Quindi del problema italiano non se ne è mai parlato. O, se lo si è fatto, non lo si è saputo. Il felice nominalismo dei sociologi pare esaurirsi dentro la loro cerchia. Io vivo nelle cose, e invento come posso il modo di nominarle. Certo se io cerco di “descrivere” l’aspetto terribile di un’intera nuova generazione, che ha subito tutti gli squilibri dovuto a uno sviluppo stupido e atroce, e cerco di “descriverlo” in “questo giovane”, in “questo operaio”, non sono capito: perché al sociologo e al politico di professione non importa personalmente nulla di “questo giovane”, di “questo operaio”. Invece a me personalmente è la sola cosa che importa.
Anche qualche giovane “estremista” di sinistra ha capito male le mie parole (ho ricevuto delle lettere, peraltro molto care, da Milano, da Bergamo). Ma sia ben chiaro. Io ho condannato l’identificazione degli opposti estremismi fin dal 1314 dicembre 1969. E, facendo il nome di Saragat, inauguratore ufficiale di tale identificazione, ho reso la sua condanna anche abbastanza solenne (nella poesia “Patmos”, scritta appunto il giorno dopo la strage di Milano e pubblicata in “Nuovi argomenti”, n. 16 dell’ottobre dicembre 1969). Non sono gli antifascisti e i fascisti estremisti che si identificano. D’altronde le poche migliaia di giovani estremisti fascisti sono in realtà forze statali: l’ho detto più volte, e ben chiaramente.
Il più sgradevole degli interventi che hanno portato confusione, frantumandola, in una discussione che poteva essere utile a tutti, è quello di Giorgio Bocca. Il mio amico ha fatto, anche lui, prima di tutto, delle illazioni personali, ricostruendo a suo piacimento, avvocatescamente, un episodio della mia biografia. Se una folla di studenti, com’egli dice in un inesatto e quindi sleale rendiconto, mi ha aggredito nel 1968, egli allora avrebbe dovuto subito prendere la penna in mano e difendermi impavidamente, visto che proprio lui in quel periodo aveva scritto, a proposito degli intellettuali, che io “ero il migliore di tutti”! Come ha facilmente cambiato idea, il nostro amico! Gli è bastato che l’indice di popolarità, a quanto pare, mi si fosse messo contro. La logica di Bocca è peraltro fondata su un buon senso pragmatico molto sospetto. Risulta che mentre io chiacchiero, lui si rimbocca le maniche e lavora. Con una rozzezza che in Ferrara è comprensibile o spiegabile, ma in lui no, per nessuna ragione, Bocca ha preso alla lettera – forse attraverso un semplificatissimo referto orale di qualche collega (perché non mi pare possibile che egli mi abbia letto) – l’identificazione tra fascisti e antifascisti (nel senso che ho detto sopra), e la qualificazione di fascista del nuovo potere nominalmente antifascista. Bocca ha ridotto questi concetti a bersaglio blasfemo, ed è partito anche lui al linciaggio. Io strido come aquila solitaria e lui intanto umile e indefesso lavora. Lavora, attualmente, a un “servizio” sul fascismo: “servizio” che io definisco un compitino sbagliato e noioso. Ora aggiungo, sbagliato, noioso e anche copiato. Infatti nello stesso numero del “Giorno” (7 luglio 1974) in cui egli mi attacca, c’è la seconda puntata di tale “servizio” di cui una gran parte è letteralmente copiata da “Valpreda più quattro” a cura di “Magistratura democratica”, con presentazione di Giuseppe Branca (edit. Nuova Italia), naturalmente non citato. Ogni zelo nasconde sempre qualcosa di poco bello: anche lo zelo antifascista.
Se Ferrara e Bocca hanno capito “male” ciò che ho scritto – riducendolo attraverso un’orrenda semplificazione – Prezzolini ha capito esattamente il contrario. Lo scandalo di Pannella consiste nel lottare in nome di tutte le minoranze, non solo dom Franzoni, ma anche maomettani, buddisti, magari fascisti e magari gli stessi avversari del momento (compreso Prezzolini). Dunque Prezzolini sfida con bassa ironia Pannella a fare qualcosa che infatti Pannella fa, in base a un principio supremamente formale di democrazia che Prezzolini non è in grado di capire. Come non ha capito che il paese dove ha vissuto per trentadue anni non è il regno della democrazia, ma del pragmatismo. È in nome di tale pragmatismo, che Prezzolini (con mia grande soddisfazione: è una nemesi) tiene bordone e Bocca.
Ultimo (per ora) il repubblicano Adolfo Battaglia, che mi dà del “buffone” solo perché sono un intellettuale letterato. Non so se la cosa sia di derivazione scelbiana (“culturame”) o sociologica (Schumpeter, Kernhauser, Mannheim, Hoffer, von Mises, De Juvenel, Shils, Veblen ecc.): è da supporsi tuttavia che si tratti del solito moralismo all’italiana, grazie al quale automaticamente il “buffone” diviene “capro espiatorio”, ristabilendosi così (oh, certo involontariamente) la verità. Mi scuso con il lettore per averlo trascinato in questo labirinto di coscienze infelici, in questa frantumazione di un discorso che poteva essere pieno e civile.
(“Corriere della Sera”, 26 luglio 1974)
di Leonardo Sciascia
Pienamente, sono d’accordo con Pannella quando dice che è importante siano tanti, e falliscano meno, i tentativi nel senso della libertà, i tentativi di liberazione. Ma la simpatia e il rispetto che ho per ogni tentativo del genere, e quindi anche per il suo, non possono trattenermi dall’esprimere il dissenso quando il dissenso c’è. Riguardo al suo tentativo non mi piace, innanzitutto, il fatto, in sé, del digiunare. Lo vedo aduggiato da ombre di misticismo che ho in sospetto. Perché reinventare come protesta civile una privazione che per secoli abbiamo subìto per costrizione dell’aldiqua e dell’aldilà? Alle mie spalle ci sono troppi secoli di digiuno involontario, perché io possa apprezzare un digiuno volontario. E dico alle mie, per dire alle spalle di milioni e milioni di italiani: che infatti restano piuttosto indifferenti al digiuno di Pannella, anche quando ne sono informati, o lo mettono in conto di un’anacronistica sete di santità. Né si può imputare al consumismo la refrattarietà del popolo a una simile forma di protesta: si tratta semplicemente e soltanto di un’avversione al digiuno, di una paura del digiuno. Una delle grandi meraviglie che si faceva Pulcinella dei francesi era che per loro il digiunare fosse la prima colazione, e insomma il mangiare, mentre per noi era l’antica e nerissima fame. Ora il problema oggi, per milioni e milioni di italiani è quello di non tornare mai più a digiunare. E possiamo prendercela quanto e come vogliamo col Partito comunista italiano: ma è certo che esso interpreta questa primaria esigenza degli italiani e si preoccupa di risolvere questo problema. Possiamo metterci alla sinistra del Partito comunista, scavalcarci continuamente ed essere scavalcati, correre verso miraggi sempre più a sinistra; ma nello sforzo di evitare che gli italiani tornino a digiunare non credo che si riuscirà ad essere più responsabili e concreti di quanto il Partito comunista sia.
Le cose che chiede Pannella sono, singolarmente, giuste; ed è giusto che le chieda. Ma un grande partito politico non può essere “pazzo di libertà”, come Pannella dice di sé nell’intervista al “Mondo”. Non può nemmeno porsi di fronte alla libertà in assoluto, ma può soltanto amare ragionevolmente le varie libertà, e tra queste scegliere per graduatoria e gradatamente. O rischia di perderle tutte, poiché coloro che amano la libertà sono tanti, ma tanti di più coloro che non la amano.
(“l’Espresso” 28 luglio 1974)
di Marco Pannella
Fra quanti da dieci anni s’applicano con zelo a farci fuori, spiccano un piccolo gruppo di ex-radicaloidi incanaglitisi nei servizi e nelle carriere di regime, e un pugno di protervi commissari politici che vegetano da parassiti vicino alle alte sfere del PCI. Gli uni e gli altri sono in servizio permanente effettivo di repressione contro il Partito radicale e i movimenti laici e libertari che gli si affiancano nelle grandi lotte per i diritti civili. Così, malgrado l’estate, questi cani da guardia del sistema ringhiano feroci quanto più la nostra azione nonviolenta riesce oggi a mettere a nudo la violenza del regime, e a proporsi per il giudizio al Paese. Attorcigliati a miserevoli bastoni di comando come serpenti attorno alla preda, rumoreggiano con i loro sonagli: ma siamo ormai mitridatizzati contro questo veleno. L’ora della resa dei conti è venuta: cominciamo dunque a farli. Il gioco parrà loro pesante, e lo è. Ma sarà anche leale e fatto per quanto ci riguarda solo di verità.
Questi antifascisti sono i fascisti di oggi, gli unici veri e, se non smascherati, mortalmente pericolosi. Li accusiamo di abuso e di tradimento dell’antifascismo cui si richiamano. In questo ha ragione Pasolini: l’antifascismo di oggi si contrappone all’antifascismo di ieri – e non al fascismo, del quale, anzi, assicura la continuità, con ruolo subalterno verso la DC (già PNF). Ogni vero fascismo ha bisogno sempre di un’ala di sicari e di ascari, dei Farinacci e dei Dumini, degli Almirante o dei Degli Occhi; e di un’altra, rispettabile e perbene, colta e borghese, gentiliana o rocchiana poco importa, purché sia corporativa e trasformista e antipopolare. L’ho scritto e lo ripeto: noi della sinistra non possiamo guardare al fascismo come a mera violenza teppistica o nazista, ma dobbiamo riconoscere che storicamente, repubblicani o socialisti, sindacalisti o populisti che si sia, un rapporto ambiguo non di rado ci ha legati al suo manifestarsi, intimità che oggi si ripete più insidiosa di ieri. È inutile e pietoso questo esorcizzare il fascismo reinventando una demonologia di comodo, traendo il nostro laicismo per una visione manichea e terroristica delle differenze politiche, affibbiando la stella gialla degli ebrei ai miseri resti paleo-fascisti, a poveri ingenui frustrati e ignoranti, o a delinquenti “comuni” (che sono sempre, in realtà, prodotti politici).
Anche i fascisti, e in primo luogo loro, per “antifascisti” radicali e autentici, hanno diritto al rispetto delle loro idee e dei loro errori. Dobbiamo solo disarmarli mentre tentano di uccidere, senza divenire simili a loro, assumendoli come alibi per una nostra suicida trasformazione. Fascismo è violenza contro le leggi democratiche e i diritti della gente, discriminazione e organizzazione corporativa e oligarchica, odio e disprezzo contro ogni minoranza organizzata che rappresenti o minacci di rappresentare la generalità dei cittadini nelle loro aspirazioni ed esigenze costituzionali, o larghe loro maggioranze unite per difendere diritti essenziali e chiedere riforme liberali e laiche, libertarie e liberanti per tutti.
La spoliticizzazione delle masse e il sequestro dei diritti politici democratici da parte dei minoranze più o meno forti, per esercitarli come privilegio all’interno della casta politica, è un’altra pratica fascista, che le esigenze del profitto capitalistico e contemporaneo, liberatosi dalle sue iniziali contraddizioni puritane e calviniste, riscopre, ripropone e reimpone in modo più violento, più agguerrito, più insidioso, più tollerabile solo in apparenza. Il nuovo fascismo sembra aver scoperto che il punto più qualificante della vita dell’individuo è il sistema nervoso centrale, più che nei muscoli o nell’intestino, e adegua quindi la sua violenza. La sua tortura non è fatta di olio di ricino e manganellate private, ma di “caroselli”, di induzione artificiosa di bisogni che ci rendono più schiavi, non già di “mezzi” che ci rendano più liberi. Oltre che di Cile, Grecia, e di golpe atlantici e europei, tentati o fatti. Deve spoliticizzarci, disintegrarci, atomizzarci, personalmente e socialmente, perché si diventi consumatori: di macchine o di cosmetici, di sessismo o di ideologie, di spettacoli o di companatico, poco importa. Purché lo si diventi, in una logica di spreco frenetico, di dilapidazione di sé e degli altri, di tetro e frustrante piacere, mai di felicità e di speranza, latrici, l’una e l’altra, dell’esterno, ordinante disordine della vita e della creazione.
Sbaglia Leonardo Sciascia quando sospetta noi radicali di non so quale flagellante e mistica paura di progresso, del benessere, dell’opulenza; quando crede di intravedere in noi, nelle nostre motivazioni e nei segni che cerchiamo di trasmettere, una sorta di pratica penitenziale e di ascesi che è senz’altro degna di rispetto, e che forse concerne Danilo Dolci e Giovanni Franzoni, ma non noi. Piuttosto c’insidiano moduli che potrebbero rievocare i “clerici vagantes”, o le enfasi disperate dei Villon fino ai Rimbaud, o la funzione dei giullari quale intuiva già un bonario signore come Tomaso Grossi del Marco Visconti e oggi ricrea e ripropone il nostro Dario Fo. O possiamo anche meglio essere compresi nel quadro morale e storico di Dickens (e in quello ideologico e esistenziale, suo coevo, di un Engels), di Balzac e di Elsa Morante. Certo siamo figli e nipoti, anche, dei Castorp di Thomas Mann e degli idioti dostojevskiani; e contemporanei delle austere, secche, essenziali previsioni che sono nei racconti di Sciascia e, prima di lui, di Elio Vittorini. Come potrebbe essere altrimenti?
Colgo qui l’occasione per una rettifica. Nell’intervista-conversazione con Pier Paolo Pasolini s’è inserita una divertente e sintomatica distrazione. Proprio parlando dell’induzione artificiosa dei bisogni di consumo, delle esigenze antiumanistiche di certo capitalismo e di questo nostro regime così perfettamente vivi in simbiosi, ripetevo una osservazione che vado facendo da tempo: perfino meglio di Marx, mi sembra, Rimbaud ha espresso una geniale intuizione, un programma politico di lotta attuale, in un solo verso: quello in cui ci propone “un raisonnable dérèglement de tous les sens”. E sottolineavo: il geniale è poi nel “ragionevole”, in questo “ragionevole sregolamento di tutti i sensi”, che altrimenti suonerebbe come la ormai frusta e stupida ricetta di un qualsiasi banale “maudit”, romantico “maledetto” post-ginsberghiano.
Se vogliono infatti, e debbono, ridurci a macchine, macchine di violenza e di distruzione o autodistruzione, di consumo continuo e frenetico, di solitudine grottescamente pseudo-edonistica, per mantenere in piedi il meccanismo sociale fondato sulla prevalenza del profitto, inteso come valore, per poi spoliticizzarci, e renderci estranei e irresponsabili verso il loro “potere”, la follia è nel non rendersi conto della perfetta totalità, oltre che totalitarietà della loro proposta e della loro politica, e nel non dar letteralmente “corpo” alla nostra risposta collettiva e personale, ideale e di prassi.
Proprio in nome d’un sano e possibile epicureismo temiamo la dissolutezza, la dissoluzione e la dissolvenza che ci si propongono con le più letali delle droghe ideologiche, politiche, culturali, consumistiche, bio-chimiche, massicciamente immesse sul mercato.
Per questo, dicevo, i “cibernetici più di ogni altro” possono comprendere che la “ragionevolezza” è la nostra bandiera. Invece è venuta fuori (comprensibilmente e in modo che mi ha divertito, tanto questo “contrario” finiva in realtà per costituire un “significante” positivo e fedele) nel sommario e nell’articolo di Pier Paolo, che “l’irragionevolezza è la bandiera dei radicali”. E anche il “siamo pazzi della libertà” che Sciascia ha frainteso, era risposta provocatoria contro la continua accusa di follia utopistica che ci viene fatta da anni. Se siamo pazzi, allora viva ancora e sempre Elsa Morante e il suo splendido, irriducibile, irridotto, sempre vivo “pazzeriello”. Ma la risposta pertinente è già data da Moravia, che affianca sull’Espresso l’intervento di Sciascia: in realtà nessuno, ci sembra, quanto noi, conosce e pratica la disciplina della concretezza e del vero realismo politico, del progetto politico esplicito e popolare, che s’incarna in obiettivi di volta in volta da tutti valutabili, in una prassi che certo è mossa da passione generale per la giustizia e la libertà, di giusti e liberi, o che tali tentano faticosamente e umilmente d’essere, ma che si fonda sull’appoggio a esigenze oggettive e drammaticamente tradite di quella gente che siamo e che ci esprime.
Questo è il guaio, caro Sciascia: che non siamo per vocazione e per scelta oggetti di interpretazione politica, noi malgrado o inconsapevoli; ma, per scelta e prassi, da almeno dieci anni, e più probabilmente da venti, attori e protagonisti politici, e un vero, nuovo partito, più d’ogni altro (se “altro” ve n’è) alternativo e in lotta.
Ma torniamo ora a occuparci seriamente degli untorelli fascisti/antifascisti cui il nostro digiuno ha in questi tempi così gravemente turbato la digestione, il fegato e il sonno. Uno di questi, nei giorni scorsi, è intervenuto nel pilotatissimo dibattito sul “caso Pannella” che Piero Ottone ha aperto e ormai chiuso, a quel che ne so, sul “Corriere della Sera”. In verità, visto che, a tuttora, non mi è giunto nemmeno il più vago cenno d’invito a dire la mia su questo “caso” (il che mi sembra, malgrado tutto, un po’ eccessivo), s’è trattato piuttosto d’uno pseudo-dibattito “sul ‘coso’ Pannella”, sulla “cosa” che dovrei da sempre ridurmi a essere, una specie di sasso inerte e che, in questo “caso”, sembra servire soprattutto per lapidare Pasolini.
Uno di questi signori è deputato repubblicano, anzi, pare, vicesegretario del PRI. Chi sia non importa: la volgarità non ha nomi, nella sua essenza è pura anonimia. Rileggiamolo. Mi chiama, dolcemente, “Marco”; scrive della mia “cara” esistenza: “…Sarebbe ingiusto rimproverargli le mille cose sbagliate, esasperate, fuori tono, che dice e talvolta fa”. Ora, prosegue, bisogna sforzarsi di capire quel che vorrebbe fare, questo Marco, che non riesce a comunicarci: “Oltre tutto è l’unico modo per contribuire a toglierlo dal maledetto impiccio in cui si è messo”. Capire cos’ha di valido questo atteggiamento “su cui Marco obiettivamente si qualifica, al di là delle molte e diverse posizioni politiche che in trent’anni ha assunto”. Ho 44 anni e tre mesi.
Ma andiamo avanti. La violenza, certo può essere una “affermazione drammaticamente necessaria… in un momento di oppressione assoluta”. Ma qui e oggi? “L’azione nonviolenta rischia di diventare forma di vera violenza morale… La minaccia di suicidio per fame per ottenere il diritto di accesso alla Tv… significa soltanto premere per un consenso che non è politico, ma di pietà”. Pannella dà così “un contributo all’ulteriore disfacimento della vita democratica eguale e contrario a quello del qualunquismo fascista che teorizza appunto i partiti putrefatti e la democrazia incapace…”.
Alla fine, si capisce perché questo “amico” interviene, così prontamente, nel “dibattito”. Grazie a Pasolini, dopo un paio di mesi di digiuno, la gente sa finalmente che vivo ed esisto, con i miei compagni radicali: l’abrogazione è provvisoriamente interrotta, e non solo più grazie alla unica liberalità del il “Mondo”. È questo che non gli va giù e l’allarma. Si preoccupa. Naturalmente per me, non per sé. Spara su Pier Paolo: “il maggior rischio di Pannella è di essere inghiottito, consumato, dalla moda dei nuovi letterati di corte, dall’entusiasmo e dai fatui fuochi d’artificio che momentaneamente lo circondano, e che si spegneranno appena una nuova moda sorgerà”. Ho ripreso il digiuno, ho il voltastomaco, tralascio il resto.
Per dieci anni le censure e le disinformazioni della Rai-Tv, il sequestro di legalità denunciato nelle settimane scorse dalla Corte Costituzionale, hanno tratto una sorta di legittimazione democratica e una sicurezza di impunità dalle pratiche censorie e fasciste dell’”Unità” e della “Voce Repubblicana”.
Ciascuno di noi, lo voglia o no, prefigura ogni giorno con i suoi comportamenti il tipo di società che effettivamente contribuisce a edificare. La violenza sopraffattoria contro le minoranze, contro il dissenso e i diversi, contro le maggioranze sgradite di casa propria e dei propri vicini; il tradimento degli ideali e delle realtà democratico-repubblicane nella pratica dell’informazione e della lotta politica, che caratterizzano oggi la situazione politica italiana, sono un prodotto anche repubblicano e comunista; e non in misura marginale.
Si spiegano così i nostri contrasti, la lotta senza quartiere che dal vertice del PRI e del PCI è stata condotta contro di noi. Si spiegano così i miliardi che il regime ha sempre consentito che giungessero, fraudolentemente, dall’ENI, dagli altri petrolieri, dagli zuccherieri, dai fondi nerissimi della pubblicità bernabeiana a certe laiche “saponette Cadum” della moralità democristiana, corporativa, classista e clericale, sempre mugugnanti, sempre profetizzanti catastrofi, sempre solidali nei momenti di pericolo con il potere, la sua violenza, la sua corruzione, la sua illegalità. La procura Generale della Corte d’Appello di Roma ha nei suoi archivi la testimonianza di una campagna politica condotta nel 1965 dal Partito radicale, durata più di un anno nell’assoluto silenzio ufficiale di tutti i partiti, contro i metodi dell’ENI di Mattei. Era una documentazione francamente terrorizzante: cercammo ogni via, da quella giudiziaria a quella politica, dalle marce ai comizi, dagli appelli alle conferenze-stampa ai giornalisti esteri, ai volantinaggi, ai manifesti.
Miliardi ai fascisti, miliardi ai repubblicani, miliardi ai comunisti, miliardi per far fuori Felice Ippolito, miliardi per far tacere tutti su tutto, miliardi per il PSIUP… Denunciammo sin da allora la funzione corporativa, quindi strutturalmente fascista, dell’economia pubblica democristiana, di corruzione della vita politica, di vanificazione e annullamento della libertà di stampa. Coinvolgemmo sindacati e personalità, da Malagodi a Lama. Nessuno osò muoversi. Intervenne perfino Paolo VI, che aveva alcune magagne milanesi da coprire. Tutto è documentato, lo ripetiamo. Ci si vorrà magari consentire, smentendosi, finalmente un processo che costringa la magistratura a riconsiderare quel dossier insabbiato da allora?
È da allora, comunque, che cominciammo a essere definiti “vieti” anticlericali, anticomunisti, antimilitaristi, antiautoritari: perché divenivamo vietati. Già allora Dodo Battaglia e Maurizio Ferrara si distinsero nell’attaccarci, nel linciarci. Nel propagandare e realizzare il più fascista dei comportamenti contro di noi, per abrogarci con la censura, o menzionarci solo per diffamarci. Ma sono anni densi di lotte, di episodi qualificanti, sui quali varrà la pena di tornare a discutere. Riuscimmo per la prima volta nella storia di questo ventennio a far scattare il procedimento costituzionale di accusa contro due ministri, Preti e Valsecchi, per la storia della “cedolare vaticana”. Ancora i repubblicani tacquero e coprirono il regime: la Camera non votò la messa sotto accusa. Per due anni scatenammo una campagna contro lo scandalo ONMI che portò all’arresto del sindaco Petrucci: la “Voce Repubblicana” tacque fino alla fine, con i suoi assessori al comune di Roma fedeli fino alla fine alla DC e ai suoi metodi. La censura fu totale. Alla vigilia del primo, determinante voto sul divorzio della commissione Affari costituzionali della Camera, massimi esponenti repubblicani andarono da Renato Ballardini, presidente della commissione, a suggerirgli di liquidare tutto affermando l’incostituzionalità del divorzio per i matrimoni concordatari: ci si accusò di essere pazzi, con questa nuova storia, che rischiava di spaccare il Paese e il “centro-sinistra”. Non avemmo ancora una volta che il silenzio totale o attacchi. Ero a casa di Ernesto Rossi, una telefonata furibonda, di parte repubblicana. “L’Astrolabio” e “L’Espresso” cominciavano a denunciare con precisione e chiarezza di dati le mene di De Lorenzo e della DC. “Siete pazzi, adesso provocate anche l’esercito, che qui da noi è tutt’al più un pericolo da operetta…”. Su “Agenzia Radicale”, dal 1965, avevamo cominciato a denunciare i legami fra industria di stato, militari, servizi segreti, ambienti fascisti e democristiani. Facevamo convegni antimilitaristici e poi marce. Andavamo, per questo, da Milano a Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza, città che avevamo individuato (nel 1967!) come il centro purulento del pericolo clerico-fascista e militare. Ogni anno, per giorni, con testardaggine. Subivamo i primi delle centinaia di nostri processi per reati di opinione. “La Voce” continuava a ignorarci o attaccarci come pazzi irresponsabili, come “l’Unità”.
Reale, ministro della Giustizia, firmava autorizzazioni a procedere per vilipendio a tutto spiano. Ci accollavano, perché laici, da soli, centinaia di direzioni responsabili di testate di giornali di opposizione, dai quali dissentivamo. Peggio, non esistevamo se non per rischiare ironie e galera. Cercavamo nuove armi, migliori, più efficaci. Digiunavamo: ottenevamo che in poche settimane, ufficialmente, la presidenza della Camera e del Senato, con procedura eccezionale, garantissero la conclusione dei dibattiti impantanati sul divorzio. Digiunavamo: in cinquanta giorni ottenevamo l’approvazione di leggi che per unanime previsione non potevano essere approvate che dopo sei mesi o un anno: la legge sull’obiezione di coscienza e quella per Valpreda. Trecento compagni uscivano dai penitenziari militari dove tutti, tutti, li avevano dimenticati e lasciati.
Occupavamo la Rai-Tv e riuscivamo clamorosamente a far parlare antidivorzisti, repubblicani e socialisti, democratici e comunisti sul tema “tabù” – tabù per tutti tranne che per noi: il divorzio.
Vogliamo ancora parlare dell’unanime volontà dei partiti laici di abrogare in sede parlamentare la “Legge Fortuna”, con la nostra sola opposizione, pur di evitare il referendum? Dello scioglimento delle camere per impedire questa vittoria laica e consentire nei fatti la vittoria elettorale clerico-fascista del 1972?
Vogliamo chiederci cosa abbiamo fatto e saputo fare, per le istituzioni, per la legge, per la Repubblica, per la fiducia e la partecipazione della gente alla “politica”, e quel che hanno fatto e saputo fare i repubblicani, i liberali, i socialdemocratici “ufficiali”? Parlare della Repubblica fondata sul peculato, sulla frode elettorale e di ogni giorno? Confrontare quel che siamo riusciti a ottenere, ad assicurare alla democrazia italiana, con i nostri metodi, con la nostra utopia e il nostro realismo?
Dobbiamo davvero aspettare “oppressione assoluta”, come chiede Battaglia, per combattere a oltranza contro la violenza ormai in procinto d’essere di nuovo vincente, per anni e anni, per fornire allora solo una mera e disperata testimonianza morale prepolitica? O dobbiamo, adesso, rischiare la vita, perché si viva, perché viviamo, e non crollino legalità e repubblica, fin quando si è ancora in tempo? Dovevamo rassegnarci ai soprusi, attendere inerti le sentenze della Corte Costituzionale, che sono accuse ufficiali di “fascismo” contro la classe politica, ma che di per loro non restaurano nei fatti la legalità violata? Ma questi repubblicani (e oggi abbiamo risposto a loro, perché più sono stati zelanti nel tentativo decennale di soffocarci), non cessano dal sorprenderci. Non vi sono limiti.
Esplode, ora, la questione dell’aborto, grazie al digiuno collettivo e alla lotta complessiva di anni che abbiamo condotto al riguardo? Ascoltiamo e meditiamo la splendida risposta che un altro deputato repubblicano, ex radicale, dà al sondaggio di “Panorama”: “Io, prima di pronunciare la parola “aborto” nel mio collegio, ci penserò ancora due volte…”.
Continuo il digiuno a oltranza. Questi pazzi della “real-politik”, come i fascisti di ieri, si avviano inesorabilmente verso la catastrofe, trascinandovi il Paese, la gente, noi tutti con loro. Non c’è più un minuto da perdere per salvarli.
(“Il Mondo”, 8 agosto 1974)